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Polcenigo


Progetto Mest-ieri
Caratteristiche e protagonisti dei lavori artigiani e agricoli del nostro passato... con uno sguardo al presente

Istituto Comprensivo “A. Zanzotto” di Caneva-Polcenigo
classi 1aA e 1aB - Scuola secondaria di I grado di Polcenigo

Mest-ieri è il titolo del testo realizzato dagli alunni delle classi 1aA e 1aB della scuola secondaria di I grado di Polcenigo dell’Istituto “A. Zanzotto” di Caneva-Polcenigo (PN), diretti dal prof. Bonaciti, ideatore del progetto e dalle prof.sse Zanette e Rigoni, dedicato alla descrizione degli antichi mestieri degli artigiani e dei contadini della pedemontana friulana, riscoperti nelle loro caratteristiche principali, attraverso la modalità interattiva e dinamica delle interviste e degli incontri diretti con i protagonisti.
Il progetto, in collaborazione con l’Ecomuseo Lis Aganis, ha l’obiettivo di recuperare lo spirito laborioso e fattivo di un territorio abitato da popolazioni industriose e resistenti, dedite al lavoro della terra e abili nel produrre manufatti utili alla vita quotidiana e al commercio.
Dalle pagine del libro riemergono antichi mestieri e profili autentici di uomini e donne del passato più antico e recente. Essi rinascono a nuova vita, vivificati dalle illustrazioni e dalle poesie dei ragazzi che ne descrivono le principali attività. Dalla penna degli alunni, la pedemontana friulana si rianima con le figure tipiche del casaro e del cestaio. A Polcenigo, in particolare, la presenza dei cestai è documentata sin dal XV secolo con la relativa fiera dei cesti. A settembre, dopo la vendemmia e prima della mietitura del granturco, si raccoglievano i cestai che producevano i manufatti utili alla raccolta del cereale. Oggi la Sagra dei Thest si svolge nel bellissimo centro di Polcenigo e raccoglie migliaia di visitatori. I ragazzi hanno documentato tutte le singole fasi della fattura di un cesto, attraverso le foto dei vari passaggi della produzione del caratteristico manufatto. 
Di interesse è la descrizione dei mestieri particolari della civiltà agricola friulana. Si tratta di attività artigianali tipiche di un mondo contadino autentico e duro che trasformava ogni elemento utile alla sopravvivenza e alla vita quotidiana. Emergono, dunque, i mestieri del ghiacciaio, dello stracciaio e dell’arriffatore. Il ghiacciaio, diffuso prima della presenza dei frigoriferi, consisteva nel tagliare e trasportare grossi blocchi di ghiaccio per la conservazione dei cibi, mentre nel duro mestiere dello stracciaio si raccoglievano stracci e pelli vecchie per la loro trasformazione in fogli di carta. L’arriffatore poi girava per le piazze e proponeva vincite con le carte a chi si affollava al suo passaggio. A seguire si riportano in vita i mestieri del norcino, dell’ombrellaio, del cavadenti e della balia nonché lo scalpellino, il fabbro e il carpentiere. 
La sezione 2 è dedicata alle interviste dei protagonisti dei mestieri di ieri, tramite l’incontro con Luciano Santin scalpellino e norcino, con la cestaia Patrizia Torresin, con il contadino Gino Zanette e con la sarta Lara Moretti. 
Di particolare efficacia didattica è la parte finale del testo dove è sollecitata negli alunni una riflessione metacognitiva sul percorso compiuto. Ai ragazzi è rivolto l’invito a raccogliere proficuamente gli stimoli della ricerca storica per la costruzione della memoria e dell’identità personale e sociale, anche nell’ottica dell’irrobustimento dell’educazione civica e nell’esercizio di una cittadinanza responsabile e consapevole.
Di non poca importanza è anche la modalità interattiva con cui hanno lavorato gli alunni, con la guida dei docenti, sorretti dalle nuove tecnologie digitali. Disegni e testi, infatti, sono stati condivisi in modalità digitale, tramite One Drive e gli applicativi della piattaforma Office 365, in uso nell’Istituto, a testimoniare che antico e moderno possono convergere nella direzione di una formazione culturale significativa.  
Nel complesso, il lavoro dei ragazzi riannoda il presente al passato e rende onore alla sapienza di popolazioni che hanno saputo trasformare i prodotti della terra e del lavoro in servizi essenziali alla vita. Dalle illustrazioni e dalle poesie degli studenti si riaccendono i sapori, gli odori, le luci e le giornate degli artigiani della pedemontana, uomini e donne schivi e tenaci che hanno trattenuto fatica e donato il futuro ai ragazzi di oggi. La riscoperta del passato avviene non solo con le interviste e le voci dei protagonisti, ma anche con la produzione spontanea e vivificante degli alunni che hanno scritto e creato poesie a commento dei mestieri descritti.  
Ringraziamenti particolari vanno al prof. Bonaciti, ideatore e realizzatore del percorso storico e didattico, alle  prof.sse Zanette e Rigoni per l’importante  contributo, agli alunni delle classi 1aA e 1aB della Secondaria di I grado di Polcenigo dell’Istituto “A. Zanzotto” di Caneva-Polcenigo, autori del testo e creatori delle illustrazioni e delle poesie, agli artigiani intervistati  che hanno offerto la loro esperienza e sapienza, al personale della Segreteria scolastica che ha contribuito a gestire la fase di pubblicazione del testo, all’Ecomuseo Lis Aganis che svolge preziosa azione di promozione e recupero di tradizioni e cultura del territorio pedemontano friulano.

dott.ssa Simonetta Longo 
Dirigente scolastica
Istituto Comprensivo “A. Zanzotto” di Caneva - Polcenigo





Le interviste agli artigiani sono state realizzate all'interno del progetto "Voci di luoghi... luoghi di voci"

Intervista a Luciano Santin
Scalpellino e norcino


•Come si chiama?
Luciano Santin.
•Quanti anni ha?
Ottanta.
•Fino a quando è andato a scuola? A quanti anni ha iniziato a
 fare questo mestiere? 
Ho frequentato solo le elementari, poi ho iniziato a lavorare come succedeva al 99% dei ragazzi del paese; ho iniziato come fabbro e maniscalco, si guadagnava poco e quindi sono andato a Venezia dove ho lavorato come cuoco; poi mi hanno chiamato per il servizio militare. 
 Quando sono tornato a casa ho visto mio cugino che era scultore e scalpellino e ho imparato questo mestiere meglio di lui perché ho molta fantasia. 
•Ha mai creato un suo prodotto per una persona importante? 
Adesso ci sono diverse mie fontane a Polcenigo: una a San Giacomo, una in centro, una a Coltura nella sede degli alpini e una sempre a Coltura in piazza, una a San Giovanni. Inoltre ho realizzato qualche capitello, lavorando per il paese ma senza prendere soldi, per passione.
•Lavora ancora?
Ho qualche problema di salute, non riesco dunque a fare tutto quello che facevo prima.
•Quale pietra usa?
Io lavoro utilizzando la pietra calcarea, quando la vedo immagino già quello che potrà diventare.
•Ha mai rotto qualcuna delle sue opere mentre le stava creando? 
Ho rotto tante pietre, purtroppo in questi casi si devono buttare via, non si possono recuperare.
•È difficile imparare a scolpire le pietre? 
Sì. Bisogna imparare da qualcuno, in questa zona ci sono stati tra i più bravi scalpellini del mondo. Non è facile imparare, ci vogliono tempo e volontà, non si può fare come vero e proprio lavoro oggi. La difficoltà principale sta nella pietra che si usa. Se trovi la pietra giusta anche una fontana non è difficile da scolpire: in questo caso ci vuole più fantasia che fatica.
•Che strumenti usa lo scalpellino? Serve una divisa?
Scalpello, bocciarda/mazza, adesso ci sono anche strumenti elettrici come la flessibile e diversi tipi di dischi e punte.
Non serve una divisa particolare, sono fondamentali gli occhiali per evitare che le schegge facciano danni agli occhi.
•Ha mai insegnato/fatto delle dimostrazioni del suo lavoro? 
Non ho mai insegnato e non ho fatto delle mostre. Purtroppo nessuno mi chiede di imparare questo lavoro.
•Le piace il suo lavoro?
Sì, perché quello che faccio adesso resta! Nessuno lo porta via. Quando facevo il cuoco, invece, quello che cucinavo… spariva.
•Sappiamo che oltre a fare lo scalpellino lei era un bravo norcino. 
Le possiamo chiedere qualcosa al riguardo?
Sì, va bene!
•Che strumenti usa il norcino? Ce n’è qualcuno particolare? 
Ce ne sono di ingombranti/pesanti?
Allora, intanto vi dico che il lavoro di norcino era all’ordine del giorno nel periodo tra metà novembre e marzo. Si usava solo il coltello per uccidere il maiale, che veniva sgozzato; poi, col passare del tempo, è diventato obbligatorio usare la pistola adeguata per animali. 
Quando si sgozzava col coltello si recuperava anche il sangue per mangiarlo/berlo. Con l’acqua bollente poi si toglieva il pelo e l’animale si squartava e si producevano i diversi salumi.
•È difficile salare la carne del maiale? 
Non è difficile, la si salava a occhio adesso invece si va a peso e viene più buona. Poi si possono aggiungere pepe, vino e aglio a seconda dei gusti.
•Era difficile uccidere il maiale?
La più grande fatica era ammazzarlo perché mi dispiaceva vederlo morire. Era una necessità all’epoca, perché era alla base dell’alimentazione: con i salumi si andava avanti per tutto l’anno. Nelle case vecchie c’erano delle stanzette apposite per conservare i diversi prodotti.
•Da quale parte del maiale si fa il salame?
Le parti con cui si fa il salame si possono prendere da tutto il maiale, l’importante è togliere i nervi. 
•È ancora in attività come norcino? 
Adesso non ho più maiali, prendo un pezzo di carne al macello e creo i salumi a mio piacimento.
•Ha mai fatto qualche errore?
Non mi è mai successo; la carne si rovina quando si asciuga o se si conserva male quando non hai luoghi adatti dove metterla.
Signor Luciano, la ringraziamo dell’intervista, è stato molto utile per farci conoscere meglio sia il lavoro dello scalpellino, sia quello del norcino.
Grazie a voi, speriamo di vederci presto magari potendovi fare una dimostrazione di come si crea una scultura.

Intervista a Patrizia Torresin
Cestaia


•Come si chiama?
Patrizia Torresin e sono originaria di Montereale Valcellina; insegno a creare cesti da tempo a Polcenigo ad adulti e ragazzi.
•Quanti anni ha?
Sono una nonna di sei nipotini e ho sessantasei anni.
•Fino a quando è andata a scuola? A quanti anni ha iniziato a
 fare questo mestiere? 
Quando andavo alle medie di solito, terminati quegli studi, non si facevano anche le superiori, dunque mi sono fermata alla terza media. Ho lavorato nei campi, poi in fabbrica, poi in mensa a scuola a Montereale. Avendo un part-time ho frequentato corsi per imparare lavori manuali. Ho fatto anche il corso di cesteria quando avevo quasi quarant’anni, quindi da adulta durante il fine settimana ho imparato a costruire i cesti tramite corsi di associazioni e della proloco.
•Le piace il suo lavoro?
Mi piace tantissimo, mi dà tanta soddisfazione soprattutto quando vedo bambini e ragazzi interessati.
•Da chi ha imparato il mestiere? Ha faticato per imparare il 
mestiere oppure ci ha preso subito la mano? 
A me è sempre piaciuto lavorare con le mani, anche da piccolissima. Nessuno della mia famiglia ha mai fatto il cestaio, ho conosciuto la mia prima insegnante, che è di Roma, a Polcenigo e ogni tanto ancora viene al Vecchio Mulino a fare corsi. Lei mi ha insegnato tantissime cose, avendo voglia di imparare per me non è stato difficile apprendere questa arte.
•Che distrazioni aveva o ha ancora durante il lavoro? 
Quando insegno sto insieme all’alunno e cerco di stare attenta a quello che fa. Anche dagli errori mi vengono idee per fare cose nuove. 
•Ha mai fatto delle mostre/dimostrazioni del suo lavoro? 
Mostre no, ma dimostrazioni sì, ad esempio durante la Sagra dei cesti di Polcenigo. Qualche anno fa la trasmissione di Rai3 Geo&Geo ha realizzato una puntata sui vecchi mestieri nel mese di maggio 2016 (replicato nel 2018) e io ero una delle protagoniste. 
Ho lavorato anche con giovani diversamente abili e, semplificando le attività, sono riusciti a fare delle bellissime cose.
•Ha lavorato/lavora da sola o alle dipendenze di altri?
Lavoro come autonoma, soprattutto per hobby, non sono dipendente, non ho dipendenti.
•Ha mai creato qualcosa per altre persone talmente bello che non avrebbe voluto venderlo? 
Sì, ma ho subito cercato di ricreare qualcosa di simile, non uguale perché nessun cesto è mai uguale a un altro.
•Che strumenti si usano nel suo lavoro? Ce n’è qualcuno
 particolare? Ce ne sono di ingombranti/pesanti?
Gli strumenti sono semplici e non pesanti, forse un po’ “pericolosi”: punteruoli (solitamente ne uso uno più grosso uno meno), cesoie, ma soprattutto bisogna sapere usare le mani.
•Si indossa un abito apposito per questo lavoro? 
No, basta indossare qualcosa di semplice, jeans e maglia/maglione. Non si usano i guanti, bisogna usare le mani nude per sentire il cesto che “cresce”.
•Ha mai rotto/rovinato inavvertitamente un suo lavoro? 
A me non è mai successo, però alcune cose che ho regalato non sono state apprezzate e il prodotto è stato rovinato.
•Si è mai fatta male lavorando? 
Per fortuna no, però potrebbe sempre succedere quindi bisogna stare attenti.
•Ha mai creato un suo prodotto per una persona importante? 
Con un gruppo di Vittorio Veneto ho creato la cesta per una mongolfiera che è stata molto apprezzata per il concorso a cui hanno partecipato. Poi per un’occasione importante, la nascita di una bambina, ho costruito una cesta da usare come culla.
•È ancora in attività?
Per il momento sono ferma a causa del coronavirus, ma in generale sono ancora in attività e voglio andare avanti finché posso. 
•Per fare i cesti ci vuole una materia prima adatta? 
Per imparare la base della cesteria si usa il midollino, è un rovo che si trova nella giungla dell’Indonesia, che viene ripulito e trafilato, messo in macchine speciali per renderlo dello spessore giusto per l’intreccio. Per usarlo nella creazione dei cesti si deve immergere alcuni minuti nell’acqua fredda per farlo diventare malleabile e quindi intrecciarlo.
Nelle zone di Polcenigo dove ci sono risorgive e corsi d’acqua, si coltivava un tempo il salice, utile per produrre i cesti per l’economia domestica (gerle per pannocchie, ceste per legna, pane o frutta) oppure nella mia zona c’è il nocciolo, altra pianta facile da intrecciare, anche se un po’ dura.
•È difficile intrecciare il midollino per ricavarne un cesto? 
Non è difficile se ci si impegna, si ha voglia e si osserva. Ricordatevi quello che dico sempre ai miei studenti: «Non è difficile imparare l’intreccio, bisogna rubare con gli occhi» cioè quando si vede qualcuno bravo a compiere un lavoro, si deve osservare e imparare già da quel momento e poi si può provare a creare qualcosa.
Signora Patrizia, grazie mille dell’intervista e speriamo di vederci presto e magari di partecipare a un suo laboratorio.
Grazie a voi, speriamo di vederci presto di persona.


Intervista a Gino Zanette
Contadino


•Buongiorno. Come si chiama, quanti anni ha e dove vive?
Mi chiamo Gino Zanette, ho ottantasei anni e vivo in comune di Godega di Sant’Urbano in provincia di Treviso, un piccolo paese al confine tra Veneto e Friuli. Vi parlerò del lavoro del contadino di 70-80 anni fa: provengo da una famiglia contadina e, anche se la mia occupazione principale era quella di studente, quando rientravo da scuola fino alla terza superiore dovevo aiutare la famiglia nel lavoro dei campi.
•Dove si trovava il suo campo?
La campagna si trovava in comune di Godega Sant’Urbano: inizialmente era molto grande, composta da 10 campi, l’equivalente di 5 ettari. Poi nel 1939 mio padre dovette vendere questo terreno, perché era morto mio fratello, il figlio maggiore, che di fatto era il suo braccio destro. Il resto della famiglia era composto da mia madre, tre sorelle e io che allora ero ancora un bambino: per una famiglia di questo tipo quella campagna era troppo grande e troppo impegnativa. 
Allora mio padre decise di prendere in affitto 4-5 campi di terra sempre a Godega di Sant’Urbano nel luogo in cui risiedo ancora oggi.
•Come si svolgevano i lavori?
I lavori erano prevalentemente manuali, gli strumenti erano tutti di legno (rastrello, badile, falce, vanga, pala, piccone…), l’aratro manuale e l’erpice erano trascinati dai buoi o dalle mucche della stalla. Era un’agricoltura totalmente diversa da quella odierna. Macchinari non ce n’erano tranne un trattore che mio padre, l’unico in tutto il paese, aveva acquistato nel 1923 una volta rientrato dagli Stati Uniti dove era emigrato per un periodo. Mio padre tuttavia non utilizzava quasi mai il trattore per lavorare la sua campagna, ma lo prestava alle aziende vicine. A quel tempo si diceva che “andava all’opera”, cioè con quel trattore lavorava i campi degli altri per poter guadagnare qualcosa.
•Chi costruiva gli attrezzi per il lavoro dei campi?
Gli attrezzi erano costruiti alcuni da mio padre, altri da un falegname. Fin da quando ero piccolo mio padre mi aveva realizzato tutti gli strumenti di lavoro a mia misura: rastrello, badile, scalpello… Ricordo che lo aiutavo a raccogliere il fieno, a fare i covoni, a caricarli su un carretto chiamato sarabàn (termine di origine francese che indicava un carro con le bande laterali), a portarli fino a casa stando nel mezzo e a caricarli nel fienile con la forca.
•Era un lavoro faticoso?
Il lavoro era estremamente faticoso sia perché era tutto manuale, sia perché, a seconda delle stagioni, aumentava o diminuiva e impegnava il contadino in orari disumani. 
Ad esempio, a fine primavera il contadino si svegliava alle 3 di mattina per falciare l’erba con la falce a mano: così presto perché non c’era il sole battente e perché l’erba bagnata era più facile da tagliare.
Tra le 5 e le 5.30 il contadino doveva andare nella stalla, rifornire di fieno le mucche sulla greppia e procedere alla mungitura, da fare subito dopo che avevano mangiato.
La mungitura era di fondamentale importanza, perché dava il latte, il burro, la ricotta e il formaggio per sfamare tutta la famiglia.
Tra le 7 e le 7.30 cominciava il resto del lavoro: la semina, il dissodamento del terreno con l’aratro, la preparazione del terreno con l’erpice…
In autunno e in inverno, invece, c’era la potatura delle viti, si facevano i trattamenti antiparassitari a viti e frutteti con il solfato di rame, si preparavano o si riparavano gli strumenti di lavoro…
Di pomeriggio c’era tutto il lavoro di pulizia della stalla e di preparazione con paglia, piante di mais e fieno per i tradizionali filò che venivano fatti alla sera dopo cena.
•Qual era l’abbigliamento tipico del contadino?
Per i lavori di campagna si usavano abiti vecchi. Importante era avere sempre un cappello di paglia per proteggere la testa dal sole.
•Era un lavoro redditizio?
No, a quel tempo il lavoro del contadino non era redditizio. La fatica non era proporzionale ai guadagni. I primi soldi della campagna arrivavano nel mese della raccolta dei bachi da seta, che va da metà maggio a metà giugno.
È importante dire però che la campagna garantiva il mantenimento della famiglia perché con cinque campi, una mucca che dava latte con i suoi derivati e carne, un maiale e una pecora per la lana, all’interno della famiglia si produceva tutto il necessario per vivere. Era un’economia povera, un’economa di sussistenza, un’economia di guerra.
Quello che eccedeva, si cercava di venderlo al mercato a Conegliano (a circa 8 km di distanza da Godega di Sant’Urbano): ci si recava in bicicletta a portare ad esempio fagioli, uova… Un sacco di fagioli veniva pagato 20 centesimi.


Intervista a Lara Moretti
Sarta


•Buongiorno. Come si chiama, quanti anni ha e dove vive?
Buongiorno a tutti. Mi chiamo Lara Moretti, ho quarantasei anni e vengo da Mestre Venezia. Dal 2000 vivo a Polcenigo.
Sono nata, ho studiato e ho iniziato a lavorare a Mestre.
•Quando ha iniziato a fare la sarta?
Dopo la maturità artistica ho deciso di studiare sartoria, una scuola di tre anni. Mi sono diplomata in stilismo di moda e ho trovato lavoro presso il teatro La Fenice di Venezia. Era il periodo in cui c’era stato l’incendio alla Fenice e tutti gli abiti di scena di proprietà del teatro erano andati perduti. Pertanto in quell’occasione venivano prestati dalle sartorie di Venezia e il mio lavoro consisteva nell’adattarli ai diversi artisti.
•Adesso che vive a Polcenigo in che cosa consiste il suo lavoro
 di sartoria?
Ora mi dedico a lavori di cucito e alla realizzazione di abiti seguendo questi passaggi: 
1. si parte da un disegno
2. si fa un modello su carta utilizzando figure geometriche
3. si taglia il cartamodello
4. si appoggia il cartamodello sulla stoffa
5. si taglia la stoffa
6. si fa l’imbastitura
7. si procede alla prima prova dell’abito
•Di solito è lei a realizzare i disegni?
Dipende: alcuni clienti arrivano già con il modello, altre volte li realizzo io, altre volte ancora utilizzo dei cartamodelli già pronti che esistono in commercio.
•Come avviene la scelta della stoffa?
Anche in questo caso dipende dal cliente: di solito vado ad acquistarla insieme al cliente soprattutto perché in base al tipo di abito da realizzare è importante scegliere il tipo di tessuto giusto. Il tessuto per giacca deve essere più rigido del tessuto per un vestito.
•Realizza abiti di tutti i tipi?
Sì, faccio un po’ di tutto. Forse meno abiti maschili.
•Quali sono i principali strumenti di lavoro?
Per il cartamodello: gomma, matita e squadre.
Una forbice per tagliare il filo, un’altra, più grande e più grossa, per i tessuto che permette di realizzare un taglio diritto.
Macchina da cucire.
Macchina taglia-cuci che serve a rifilare il tessuto e a dargli compattezza. È importante per non far sfilare la stoffa.
•Le piace il suo lavoro? E che caratteristiche ha?
È un lavoro che mi piace moltissimo, è un lavoro che richiede pazienza e che stimola la fantasia.
•Indossa un abbigliamento particolare?
Nelle sartorie di solito si utilizza un camice da lavoro che permette di inserire spilli, aghi, fili, senza rovinare i vestiti. Io lavoro a casa e indosso abiti comodi, idonei a questo tipo di lavoro.
•Il lavoro di sarta è facile o difficile?
È un lavoro che diventa facile e veloce solo con l’esperienza. L’esercizio e la pratica sono fondamentali: più si lavora, più si diventa veloci, più si migliora.
•Esiste una stagionalità in questo tipo di lavoro?
Generalmente si lavora di più nel periodo estivo sia perché i clienti desiderano capi leggeri da cambiare di frequente sia perché è il periodo delle cerimonie. Durante l’inverno si lavora di più nel periodo che precede le feste natalizie.
•È facile incontrare i gusti del cliente?
Il sarto deve essere un po’ psicologo e avere grande sensibilità, perché l’abito dipende molto dallo stato d’animo. Ci sono alcuni momenti in cui il cliente se lo sente bene, altri in cui non lo sente bene. Dipende un po’ dal cliente e dal momento. È fondamentale essere rispettosi delle persone, capire il loro stato d’animo e le loro esigenze.
•Dove si trova il suo laboratorio?
Il mio laboratorio è a casa. Alcuni clienti vengono da me, in altri casi vado io a casa dei clienti.
•Quante ore lavora al giorno?
In genere lavoro 8 ore al giorno, non di più, per permettere agli occhi di riposare perché è richiesta una grande concentrazione. Soprattutto quando si lavora a un tessuto fantasia, si dice che l’occhio “si ubriaca” e non riesce più a vedere i difetti.







 
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